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Szlamek Bajler, conosciuto anche come Yakov Grojanowski

Ultimo aggiornamento 24 Agosto 2006





Annotazioni sul Waldlager di Chelmno - Gennaio 1942

Szlamek Bajler era un giovane Ebreo del villaggio di Izbica Kujawska, a nord di Kolo (in Tedesco: Warthbrücken) e Chelmno (in Tedesco: Kulmhof), nel "Warthegau". Bajler fu arrestato in una retata a Izbica all’ inizio di Gennaio 1942, e costretto a lavorare nel Waldlager di Chelmno. Fu testimone dell’annientamento della maggior parte dei 1.600 Ebrei del suo villaggio natio inclusa la sua stessa famiglia, circa una settimana più tardi. Cinque giorni dopo il massacro Bajler fuggì dal Waldlager. Riuscì a raggiungere il ghetto di Varsavia dove raccontò la sua storia a Emanuel Ringelblum, che lo invitò a scriverla. Bajler lo fece sotto lo pseudonimo di Yakov Grojanowski.
Questo è un estratto dei suoi appunti. Bajler e i suoi 28 compagni di prigionia arrivarono al castello di Chelmno.

Martedì, 6 Gennaio 1942:

“Siamo arrivati alle 12:30 del mattino. Fummo scaraventati fuori del camion. Da questo momento in poi fummo nelle mani di SS con uniformi nere, tutti Tedeschi di alto grado del Reich. Ci venne ordinato di consegnare tutti i nostri soldi e gli oggetti preziosi. Poi quindici uomini vennero selezionati, tra i quali anch’io, e fummo portati giù nelle stanze della cantina dello Schloss (castello). Noi quindici venimmo confinati in una stanza, gli altri quattordici in un’altra. Nella cantina era buio, nero come la pece. Alcuni Tedeschi etnici del personale domestico ci diedero della paglia. Poi fu portata una lanterna. Alle otto circa della sera ricevemmo caffé nero amaro e nient’altro. Eravamo tutti molto abbattuti. Si poteva solo pensare al peggio, qualcuno era prossimo a piangere. Ci baciammo e ci congedammo l’un l’altro. Era freddo in modo inimmaginabile e ci sdraiammo insieme, vicini. Trascorremmo l’intera notte senza chiudere occhio. Parlavamo soltanto della deportazione degli Ebrei, specialmente da Kolo e Dabie. Da come sembrava, non avevamo ancora prospettive di uscire."

Mercoledì, 7 Gennaio 1942:

"Alle sette del mattino, i gendarmi in servizio bussarono e ci ordinarono di alzarci. Ci volle mezz’ora prima che ci portassero caffé nero e pane delle nostre scorte. Traemmo una magra consolazione da questo e ci dicemmo che c’era un Dio nel cielo; dopo tutto, stavamo andando a lavorare.
Alle 8:30 circa fummo condotti nel cortile. Sei di noi dovettero andare nella seconda stanza della cantina, per portar fuori due corpi. I morti erano di Klodawa, e si erano impiccati. Erano stati arruolati come scavatori di fosse. I loro corpi vennero gettati su un camion. Incontrammo gli altri quattordici scavatori forzati provenienti da Izbica. Non appena uscimmo dalla cantina venimmo circondati da dodici gendarmi e uomini della Gestapo con mitragliatori. Salimmo sul camion. La nostra scorta era di sei gendarmi con fucili mitragliatori. Dietro di noi veniva un altro veicolo con 10 gendarmi e due civili. Andammo in direzione di Kolo per circa 7 km fino a svoltare a sinistra nella foresta; dopo metà chilometro ci fermammo su un sentiero tranquillo. Ci venne ordinato di scendere e di allinearci in doppie file.
Una SS ci ordinò di allinearci con le nostre pale, vestiti, nonostante il gelo, solo con scarpe, biancheria intima, pantaloni e camicia. I nostri cappotti, cappelli, guanti, etc., dovevano rimanere in un mucchio sul terreno. I due civili presero dal camion tutte le pale e i picconi. Otto di noi ai quali non fu consegnato nessun attrezzo dovettero scaricare i corpi. Già nel nostro tragitto verso la foresta vedemmo circa quattordici uomini, scavatori forzati di Klodawa, che erano arrivati prima di noi.
Gli otto uomini senza attrezzi trasportarono i due corpi ad una fossa e ve li gettarono. Non dovemmo aspettare molto, prima che il successivo camion arrivasse con delle vittime fresche. Era costruito in modo speciale. Sembrava un normale furgone grande, dipinto in grigio, con due portelloni posteriori ermeticamente chiusi. Le pareti interne erano di acciaio. Non c’erano sedili. Il pavimento era ricoperto da una grata di legno, come nei bagni pubblici, con sopra stuoie di paglia. Tra la cabina di guida e la parte posteriore c’erano due spioncini. Con una torcia si poteva osservare attraverso di essi se le vittime erano già morte.
Sotto la grata di legno c’erano due tubi spessi circa 15 cm che uscivano dalla cabina. I tubi avevano piccole aperture dalle quali il gas fuoriusciva. Il generatore del gas era nella cabina, dove lo stesso autista sedeva per tutto il tempo. Indossava una uniforme delle unità testa di morto delle SS ed aveva circa quarant’anni. Ce n’erano due di questi furgoni.
Quando i veicoli si avvicinavano dovevamo stare ad una distanza di 5 m dalla fossa. Il capo del distaccamento di guardia era una SS di alto rango, un sadico assoluto, e assassino. Ordinò che otto uomini dovessero aprire le porte del furgone. L’odore di gas che ci investì era opprimente. Le vittime erano Zingari provenienti da Lodz. Sparsi in giro nel furgone c’erano i loro oggetti: fisarmoniche, violini, coperte, orologi e altri preziosi.
Dopo che le porte furono aperte per cinque minuti ci vennero urlati ordini, ‘Qui! Tu Ebreo! Sali e vuota tutto!’
Il lavoro non progrediva abbastanza velocemente. Il capo delle SS prese la sua frusta ed urlò, ‘Al diavolo, gli darò una mano immediatamente!’ Colpì in tutte le direzioni sulla testa e sulle orecchie delle persone, e andò avanti finché non caddero. Tre degli otto che non potevano ancora alzarsi furono fucilati sul posto. Quando gli altri videro ciò si rialzarono sulle loro gambe e continuarono il lavoro con le loro ultime riserve di energia.”

Bajler menziona un uomo grasso, Giter di Bydgoszcz, che non era in grado di mantenere la velocità del lavoro. Venne frustato crudelmente dal capo delle SS (‘Frusta grande’) e fucilato nella fossa.

“I corpi erano gettati uno sopra l’altro, come rifiuti su un mucchio. Li tenevamo per i piedi e per i capelli. Sul bordo della fossa stavano due uomini che li gettavano dentro. Nella fossa si trovavano due altri uomini che li posizionavano dalla testa ai piedi, con la faccia verso il basso. Se veniva lasciato uno spazio, vi veniva spinto all’interno un bambino. Ogni gruppo comprendeva 180 - 200 corpi. Per ogni tre furgoni carichi venivano utilizzati venti uomini per coprire i corpi. All’inizio questo doveva essere fatto due volte, successivamente fino a tre volte, perché arrivavano nove furgoni (che era nove volte sessanta corpi).
Esattamente a mezzogiorno dovevamo deporre le pale ed uscire dalla fossa. Tutto il tempo eravamo circondati da guardie. Dovevamo persino scaricarci sul posto. Andammo sul luogo dove si trovavano i nostri effetti personali. Dovevamo sederci sopra, vicini l’uno l’altro. Ci fu dato caffé amaro freddo e un pezzo di pane ghiacciato. Quello era il nostro pranzo. Questo è come ci sedemmo per mezz’ora. In seguito dovemmo allinearci, fummo contati e condotti di nuovo al lavoro.
Che cosa sembravano i morti? Non erano bruciati o neri; le loro facce non erano cambiate. Quasi tutti i morti erano sporchi di escrementi. Circa alle cinque smettemmo di lavorare. Gli otto uomini che avevano lavorato con i corpi dovettero stendersi sopra di loro con le facce rivolte in basso. Un SS con un fucile mitragliatore sparò loro alla testa.
Ci vestimmo rapidamente e prendemmo con noi le pale. Fummo contati e scortati al camion dai gendarmi e dalle SS. Dovemmo mettere via le pale. Poi fummo nuovamente contati e spinti sul camion. Il viaggio fino allo Schloss durava circa 15 minuti. Viaggiammo insieme con gli uomini di Klodawa e parlammo molto silenziosamente con loro, così che i gendarmi seduti dietro non ci sentissero.
Risultò che c’erano molte altre stanze nello Schloss. Noi eravamo in venti nella nostra stanza, con altri quindici nella stanza adiacente. Non c’erano altri scavatori forzati. Non appena entrammo nella fredda e buia cantina, ci gettammo sulla paglia e piangemmo per tutto ciò che ci era capitato.”

Con Bajler in quella cantina si trovavano un ragazzo di 15 anni di nome Monik Halter, il quarantenne Meir Pitrowski e Gershon Praschker di 55 anni, tutti di Izbica Kujawska. Quest’ultimo invitò i suoi compagni di prigionia a recitare una preghiera di confessione e di penitenza prima di morire.

“Era una vista molto deprimente. Il sergente-maggiore bussò alla porta, gridando ‘Silenzio, Ebrei, o vi sparerò!’ Continuammo la preghiera piano, con voci soffocate.
Alle 7:30 di sera ci portarono una pentola di zuppa di piccole rape. Non riuscivamo ad inghiottire niente per il dolore e le lacrime. Era molto freddo e non avevamo affatto coperte.
Uno di noi esclamò ‘Chissà chi mancherà tra noi domani.’ Ci pressammo gli uni vicini agli altri e cademmo in un sonno irregolare infestato da sogni terribili. Dormimmo per circa quattro ore. Poi corremmo intorno alla stanza fredda gelida e discutemmo del destino che ci attendeva.”

Giovedì, 8 Gennaio 1942:

"Il giorno iniziò più o meno in un modo simile a ieri, sebbene SS di alto grado venissero a visitarci. La loro identità non è menzionata, ma erano portati da una limousine. L’identità di uno degli ‘otto’ che lavorò con i corpi è nota: Mechel Wiltschinski, 19 anni, di Izbica. Insieme con i suoi compagni venne fucilato nella fossa alla fine del giorno di lavoro."

A proposito dell’uccisione nei furgoni a gas di questo giorno:
“Due ore dopo, il primo veicolo arrivò carico di Zingari. Affermo con certezza del cento per cento che le esecuzioni avvennero nella foresta. Nel normale corso degli eventi il furgone a gas si fermava a circa cento metri dalle fosse. In due casi i veicoli a gas, che erano pieni di Ebrei, si fermarono a venti metri dalla fossa. Questo accadde una volta questo Giovedì, l’altra Mercoledì 14.”

C’erano inoltre maggiori dettagli riguardo i furgoni a gas stessi:

“I nostri compagni tra gli ‘otto’ ci dissero che c’era un apparecchio con dei tasti nella cabina dell’autista. Da questo apparecchio due tubi andavano nel furgone. L’autista (c’erano due furgoni a gas per le esecuzioni, e due autisti - sempre gli stessi) premeva un tasto e usciva dal veicolo. Nello stesso momento potevano essere udite urla spaventose, grida e colpi contro i lati del furgone. Questo durava per circa quindici minuti. Poi l’autista risaliva e accendeva una torcia elettrica sul retro per vedere se le persone erano già morte. Quindi guidava il furgone a gas fino ad una distanza di cinque metri dalla fossa.”

Riguardo i corpi delle persone morte, Bajler aggiunse al suo commento precedente:

“Erano ancora caldi e sembravano addormentati. Le loro guance non erano pallide; avevano ancora un colore della pelle naturale.”

C’erano 9 trasporti da seppellire, di cui 7 comprendevano Zingari e gli ultimi due Ebrei.
Tornati nella cantina, agli Ebrei fu ordinato dalle guardie di cantare. Meir Pitrowski e Jehuda Jakubowicz, di Wloclawek, implorarono Bajler di alzarsi e cantare. Così fece:

“’Amici e persone onorabili, alzatevi e cantate dopo di me; per prima cosa dobbiamo coprire la nostre teste.’ Iniziai a cantare ‘Ascolta! O Israele, il Signore è il nostro Dio, il nostro Signore è uno’. Le persone radunate ripeterono ogni verso con toni depressi. Poi continuai: ‘Elogiato sia il Suo nome e lo splendore del Suo regno per sempre’, che gli altri ripeterono dopo di me per tre volte. Il gendarme insisteva perché continuassimo. Io dissi ‘Amici e persone onorabili, ora canteremo Hatikvah.’ E cantammo l’inno con le nostre teste coperte. Suonava come una preghiera. Dopo di questo il gendarme se ne andò e chiuse la porta con tre serrature.
Più tardi quella sera i prigionieri dovettero cantare ancora. Dovettero ripetere ‘Ringraziamo Adolf Hitler per ogni cosa’.
Dalle cinque del mattino ognuno era sveglio a causa del freddo. Conversammo. Getzel Chrzastowski, un membro del Bund, e Eisenstab, entrambi di Klodawa (Eisenstab possedeva un negozio di pellicce a Klodawa), avevano perso la loro fede in Dio perchè non si era preoccupato dell’ingiustizia e della sofferenza. Per contrasto gli altri, io incluso, rimanevamo saldi nella nostra fede e dicemmo, come Mosche Asch (un uomo rispettabile di Izbica), che il tempo del Messia era vicino.”

Venerdì, 9 gennaio 1942:

"La parte inferiore della fossa era larga circa 1.5 m, quella superiore cinque e la sua profondità era di 5 metri. Le fosse comuni si estendevano in lunghezza. Se un albero si trovava lungo la sua lunghezza, veniva abbattuto.
Tra gli ‘otto’ oggi c’erano Abraham Zalinski, di 32 anni, Zalman Jakubowski, 55, Gershon Praschker, precedentemente menzionato, tutti di Izbica. Furono uccisi come al solito.
Al ritorno nel cortile dello Schloss Kulmhof fummo sgradevolmente sorpresi di vedere un nuovo trasporto. Erano probabilmente un nuovo gruppo di scavatori: sedici uomini di Izbica e sedici di Bugaj. Tra quelli di Izbica c’erano 1. Moshe Lesek, 40 anni, 2. Avigdor Palanski, 20 anni, 3. Steier, 35 anni, 4. Knoll, 45 anni, 5. Izchak Preiss, 45 anni, 6. Jehuda Lutzinski, 51 anni, 7. Kalman Radzewski, 32 anni, 8. Menachem Archijowski, 40 anni. Fra quelli di Bugaj si trovava il mio amico e commilitone Haim Reuben Izbizki, di 35 anni.
Venti dei vecchi scavatori, insieme con cinque nuovi, vennero condotti in un’altra stanza nella cantina. Questa camera era alquanto più piccola della precedente. Là trovammo coperte, biancheria intima, pantaloni, abiti, così come derrate alimentari (pane, grasso, e zucchero). Questi articoli appartenevano ai nuovi scavatori.
Sentimmo voci dalla stanza adiacente. Battei sul muro e urlai nel punto in cui un mattone mancante lasciava passare aria. Domandai se H.R. Izbizki si trovava nella stanza. Lui venne al muro. Chiesi se almeno sua madre e sua sorella fossero scappate. La guardia interruppe la nostra conversazione.
In seguito i nuovi arrivati ci diedero alcune notizie politiche. Dissero che i Russi avevano già ripreso Smolensk e Kiev, e stavano venendo nella nostra direzione. Desideravamo che con l’aiuto di Dio arrivassero e distruggessero questo posto terribile."

Sette - otto trasporti vennero seppelliti questo giorno, inizialmente Zingari come ieri, ma gli ultimi due contenevano Ebrei.

“Erano persone più giovani e più anziane con valigie e zaini. Sui loro vestiti era affissa una stella di David, davanti e dietro. Pensammo che fossero prigionieri malati di un campo che i Nazisti volevano eliminare in questo modo. Furono sepolti con i loro effetti personali. Questi fatti ci scossero nel profondo, perchè fino ad allora avevamo sperato che gli Ebrei nei campi sarebbero sopravvissuti a questi tempi terribili.”

Sabato, 10 Gennaio 1942:

“Alle undici circa arrivò il primo furgone carico di vittime. Le vittime ebree vennero trattate in questo modo: gli uomini, le donne ei bambini erano con la loro biancheria intima. Dopo che furono gettati fuori del veicolo, due Tedeschi vestiti normalmente salirono su di loro per fare un controllo completo, per vedere se qualcosa era stato nascosto. Se vedevano una collana attorno alla gola la strappavano via. Strapparono anelli dalle dita, e tolsero denti d’oro dalle bocche. Esaminarono persino l’ano (e, nel caso delle donne, i genitali). L’intero esame venne fatto il più brutalmente possibile.” Tutte le vittime erano di Klodawa.

Eisenstab ci disse di non avere più altra ragione di vivere da quando sua moglie e la sua unica figlia di 15 anni erano state sepolte. Ma i suoi compagni lo trattennero dal chiedere ai Tedeschi di ucciderlo. Oggi sono arrivati sette trasporti."

Domenica, 11 gennaio 1942:

“Ci dissero che non avremmo lavorato perchè era Domenica. Dopo la preghiera del mattino e la preghiera per i morti rimanemmo nella nostra paradisiaca cantina. Non recitammo la preghiera della penitenza. Parlammo ancora di noi stessi, di politica e di Dio. Ognuno voleva tener duro fino alla liberazione.”

Lunedì, 12 Gennaio 1942:

“Alle 7 della mattina ci portarono caffé e pane. Alcuni degli uomini di Izbica (che ultimamente vivevano a Kutno) bevvero tutto il caffé. Gli altri erano molto infastiditi e dissero che avevamo già visto in faccia la morte e dovevamo comportarci con dignità.
Alle 8:30 eravamo già al lavoro. Alle 9:30 apparve il primo furgone a gas. Tra gli ‘otto’ c’erano Aharon Rosenthal, Schlomo Babiacki e Schmuel Bibedgal, tutti di età compresa tra cinquanta e sessanta anni.” Solo i cinque più anziani tra gli ‘otto’ sarebbero stati uccisi alla fine della giornata.

“In questo giorno fummo sorvegliati assolutamente come schiavi. Nemmeno attendevano che l’odore del gas fosse evaporato.” Arrivarono nove furgoni, ognuno di sessanta Ebrei di Klodawa, 500 persone di Klodawa complessivamente. “Il mio amico Getzel Chrzastowski urlò terribilmente per un momento, quando riconobbe suo figlio di 14 anni, che era stato appena gettato nella fossa. Lo dovemmo fermare, anche, dal supplicare i Tedeschi di ucciderlo. Lo persuademmo che era necessario sopravvivere a questa sofferenza, così più tardi avremmo potuto vendicarci e restituire il tutto ai Tedeschi."
Al ritorno nella cantina dalla stanza adiacente arrivò il messaggio che “i Tedeschi avevano catturato un fuggiasco Ebreo di Klodawa. ” Il mattino successivo ci dissero i particolari seguenti: il fuggitivo catturato, Mahmens Goldmann, aveva raccontato loro nei dettagli come gli Ebrei erano stati portati nei furgoni a gas. Quando erano arrivati allo Schloss furono all’inizio trattati più gentilmente. Un Tedesco anziano, circa sessantenne, con una lunga pipa in bocca, aiutò le madri a far scendere i bambini dal camion. Trasportò i bambini così che le mamme poterono scendere più facilmente e aiutare i vecchi a raggiungere lo Schloss.
Gli sfortunati erano sinceramente coinvolti dalle sue gentili e delicate maniere. Furono condotti in una camera calda che era riscaldata da due stufe. Il pavimento era ricoperto con grate di legno, come in uno stabilimento da bagno. L’anziano Tedesco e l’ufficiale SS parlarono loro in questa stanza. Li assicurarono che sarebbero stati portati nel ghetto di Lodz. Là erano attesi per lavorare ed essere produttivi. Le donne avrebbero badato alla casa, i bambini sarebbero andati a scuola, e così via. Per arrivarci, tuttavia, dovevano subire una disinfestazione. A questo proposito era necessario che si spogliassero e rimanessero con la biancheria intima. I loro vestiti sarebbero stati passati con vapore caldo. Oggetti preziosi e documenti dovevano essere legati in un fagotto, e consegnati per essere custoditi in sicurezza.
Chiunque aveva custodito banconote, o le aveva cucite dentro i vestiti, doveva certamente tirarle fuori, altrimenti sarebbero state danneggiate nel forno a vapore. Inoltre tutti loro avrebbero dovuto fare una doccia. L’anziano Tedesco invitò gentilmente quelli presenti a fare un bagno e aprì una porta dalla quale 15 - 20 gradini conducevano in basso. Là era terribilmente freddo. Quando gli domandarono a proposito del freddo, il Tedesco disse gentilmente che dovevano camminare un po’ oltre: sarebbe stato più caldo. Percorsero un lungo corridoio verso alcuni gradini che conducevano ad una rampa. Il furgone a gas era accostato alla rampa.
Il comportamento gentile finiva bruscamente ed essi venivano caricati sul furgone con urla violente. Gli Ebrei si resero conto immediatamente che stavano per morire. Urlarono, gridarono la preghiera ‘Ascolta! O Israele’.
All’uscita della stanza calda si trovava una piccola camera nella quale Goldmann era nascosto. Dopo aver trascorso 24 ore là dentro nel freddo gelido era già abbastanza congelato, quindi decise di cercare i suoi vestiti e di salvarsi. Venne catturato e inserito tra gli scavatori.”

Martedì, 13 Gennaio 1942:

La mattina seguente, al Waldlager, a Goldmann fu ordinato di sdraiarsi nella fossa e venne ucciso.
“In questo giorno i trasporti erano pieni - approssimativamente novanta corpi in ogni furgone. In questo giorno la comunità ebraica di Bugemin venne liquidata.” Inoltre “sotterrammo circa ottocento Ebrei di Bugaj. Seppellimmo nove trasporti; dopo il lavoro, cinque degli uomini che avevano scaricato i corpi vennero fucilati. Quando fummo nella nostra cantina, Michael Worbleznik scoppiò in lacrime; aveva perso sua moglie, due bambini e i suoi genitori.
La domanda “Come si potrebbe fuggire allo scopo di avvertire l’intera popolazione ebraica” fu ampiamente discussa, ma non risolta quella notte."

Mercoledì, 14 Gennaio 1942:

Subito dopo colazione Krzewacki di Klodawa si impiccò, con l’aiuto di Getzel Chrzatowski. Gershon Swietoplawski, collega di Krzewacki nello scavare fosse, lo seguì nella morte. I corpi rimasero nella cantina per alcuni giorni.
Tra le vittime di questo giorno, Ebrei di Izbica, ed anche un civile Tedesco, uno dei cuochi nello Schloss. Aveva tentato di catturare un Ebreo che era riuscito a rubare qualcosa dalla cucina. Seguendo il ladro, entrò nel furgone a gas. “Al momento stesso i portelloni furono chiusi con fragore. Le sue urla e i suoi colpi vennero ignorati. Alcuni di noi pensarono che fosse stato deliberatamente avvelenato così che nessun testimone di questa uccisione rimanesse vivo.
In questo giorno uno dei furgoni è giunto per errore fino alla fossa. Abbiamo sentito le silenziose grida di aiuto e i colpi alla porte, da parte delle vittime torturate. Alla fine della giornata sei uomini degli ‘otto’ sono stati fucilati.”

Giovedì, 15 Gennaio 1942:

“In questa occasione abbiamo viaggiato in autobus. Monik Halter mi disse che i finestrini del veicolo potevano essere facilmente aperti con un gancio. Il pensiero di fuggire albergò nella mia testa per tutto il tempo.
Alle 8 del mattino eravamo già sul posto di lavoro. Alle dieci arrivarono le prime vittime, ancora da Izbica. Fino a mezzogiorno smaltimmo quattro trasporti sovraccarichi. Un furgone aspettava in fila all’altro.
A mezzogiorno ricevetti la triste notizia che mio fratello e i miei genitori erano stati appena sepolti. Cercai di avvicinarmi ai corpi per dare un ultimo sguardo ai miei cari. La prima volta mi venne gettata una manciata di terra ghiacciata, tirata dal Tedesco buono con la pipa. La seconda volta 'Frusta grande' mi sparò. Non so se il colpo mi mancò deliberatamente o accidentalmente. Una cosa è certa: rimasi in vita. Soppressi la mia angoscia e mi concentrai a lavorare veloce, così da dimenticare per cinque minuti la terribile situazione.
Rimasi solo come un pezzo di pietra. Della mia intera famiglia, che comprendeva sessanta persone, io sono l’unico che sopravvisse. Verso sera, mentre aiutavamo a coprire i corpi, misi la mia pala per terra.
Michael Podklebnik seguì il mio esempio e dicemmo insieme la preghiera dei defunti. Prima di lasciare la fossa cinque degli ‘otto’ vennero fucilati. Alle sette della sera fummo riportati a casa. Tutti quelli che venivano da Izbica erano in una disperazione assoluta. Ci rendemmo conto che non avremmo mai più visto i nostri parenti. Ero fuori di me e indifferente ad ogni cosa.
Nella stanza successiva, venimmo a sapere, si trovavano diciotto scavatori di Lodz. Sentimmo attraverso il muro che Rumkowski (l’anziano del consiglio ebraico di Lodz) aveva ordinato la deportazione di 750 famiglie di Lodz.”

Venerdì, 16 Gennaio 1942:

Le 750 famiglie di Lodz erano arrivate in treno a Kolo, dove erano state alloggiate in una sinagoga. Questo Venerdì “le vittime arrivarono da Lodz. Alcune di loro apparivano affamate e mostravano segni di essere state colpite e ferite; si poteva misurare il grado di carestia a Lodz. Provammo grande compassione quando vedemmo come erano stati affamati per lungo tempo, soltanto per morire in modo così crudele. I corpi a malapena pesavano qualcosa. Dove in precedenza tre trasporti venivano messi a strati uno sopra l’altro, ora c’era spazio per quattro.
Nel pomeriggio ‘Frusta grande’ bevve ancora una bottiglia di Schnaps; in seguito cominciò a distribuire colpi mortali con la sua frusta.
Il Venerdì iniziarono a versare cloro sulle fosse a causa del fetore dovuto ai tanti cadaveri.”
Vennero sepolti otto trasporti. Alla fine del giorno furono fucilati sette degli ‘otto’.

Sabato, 17 gennaio 1942:

“Abbiamo sepolto sette trasporti sovraccarichi. Avevamo finito il lavoro alle cinque, quando un’auto apparve improvvisamente con l’ordine di fucilare sedici uomini. Questa era ovviamente la punizione per la fuga di Abraham Rois. (Era fuggito alle 10 il Venerdì sera.) Sedici uomini furono selezionati. Dovettero sdraiarsi in gruppi di otto, faccia in giù, sopra i corpi, e furono uccisi da un colpo alla testa con fucili automatici.”

Domenica, 18 Gennaio 1942:

“Apprendemmo a colazione che saremmo dovuti andare a lavorare. Alle otto eravamo già sul luogo di lavoro. Venti nuovi picconi e pale furono scaricati dal camion. Ci rendemmo ora conto che la ‘produzione’, lontana dal giungere alla fine, era in aumento.
Poiché era Domenica non tutti i gendarmi erano in servizio. Consumammo il nostro pasto nella fossa. Loro probabilmente volevano essere sicuri che non li avremmo attaccati. Nemmeno cercammo di scagliarci sui nostri carnefici. Le pistole puntate su di noi ci riempivano di troppa paura.
In questo giorno nessuno venne ucciso alla fine del lavoro.
Dopo la preghiera della sera decidemmo di fuggire, non importava a quale costo. Domandai a Kalman Radzewski di darmi alcuni marchi poiché non avevo un singolo Pfennig. Mi diede 50 marchi che aveva cucito nel suo vestito. La fuga di Rois era un esempio che aveva fatto una profonda impressione su di me, perché era uscito attraverso una finestra della cantina.”

Lunedì, 19 Gennaio1942:

“Al mattino salimmo ancora sull’autobus. Lasciai salire tutti gli altri davanti a me, e io fui l’ultimo a entrare nell’autobus. Il gendarme sedeva davanti. In questo giorno nessuna SS era dietro a noi. Alla mia destra c’era un finestrino che poteva facilmente essere aperto. Durante il viaggio lo aprii. Quando l’aria fredda entrò mi spaventai e rapidamente lo chiusi di nuovo. Tuttavia i miei compagni, tra i quali Monik Halter in particolare, mi incoraggiarono.
Dopo aver preso la decisione chiesi delicatamente ai miei compagni di alzarsi in modo che la corrente di aria fredda non raggiungesse i gendarmi. Spinsi rapidamente il vetro del finestrino fuori dal suo telaio, spinsi le mie gambe fuori e mi girai. Mi trattenni sulla porta con le mani e premetti i piedi contro i perni. Dissi ai miei compagni che dovevano mettere il vetro del finestrino a posto, dopo che fossi saltato. Immediatamente saltai.
Quando colpii il terreno rotolai per un poco e mi raschiai la pelle delle mani. La sola cosa che mi importava era di non rompermi una gamba. Mi girai per vedere se avevano notato qualcosa sull’autobus, ma questo continuò il suo viaggio
Non persi tempo ma corsi più veloce che potevo attraverso campi e boschi. Dopo un’ora mi fermai davanti a una fattoria di un contadino polacco. Entrai e lo salutai nella maniera polacca: ‘Sia lodato Gesù Cristo'.
Mentre mi riscaldavo domandai prudentemente riguardo la distanza da Chelmno. Erano solo 3 km. Ricevetti anche un pezzo di pane che misi nella mia tasca. Quando stavo per andarmene il contadino mi chiese se ero Ebreo - cosa che negai assolutamente. Gli domandai perché sospettava che lo fossi, e mi disse che a Chelmno stavano gassando Ebrei e Zingari. Mi congedai con il saluto polacco e me ne andai.”

Verso le 2 del pomeriggio Bajler raggiunse la città di Grabow, che aveva una comunità ebraica. Venne scambiato da loro per un Tedesco etnico, poiché non indossava una stella. Sembrava rozzo, non avendo avuto opportunità a Chelmno di lavarsi e radersi. Andò dal rabbino, che gli domandò chi fosse:
“’Rabbi, sono un Ebreo dell’inferno!’ mi guardò come se fossi pazzo. Gli dissi: ‘Rabbi, non pensare che sia impazzito e abbia perso la ragione. Sono un Ebreo giunto dall’inferno. Stanno uccidendo l’intera nazione di Israele. Io stesso ho seppellito una città intera di Ebrei, i miei genitori, i miei fratelli e l’intera famiglia. Sono rimasto solo come un pezzo di pietra.’ Piansi durante la conversazione. Il rabbino domandò: ‘Dove sono stati uccisi?’ Dissi: ‘Rabbi, a Chelmno. Vengono gassati nella foresta e sepolti in fosse comuni.’ La sua domestica (il rabbino era vedovo) mi portò una ciotola d’acqua per i miei occhi gonfi. Mi lavai le mani. La ferita sulla mia mano destra iniziò a farmi male. Quando la mia storia fece il giro vennero molti Ebrei, ai quali raccontai tutti i particolari. Tutti piansero.
Mangiammo pane e burro; Mi venne dato del thé da bere e dissi la benedizione.”

Il rabbino, Jakub Szulman, si rese conto che la storia di Bajler era verità, e scrisse una lettera ai suoi parenti a Lodz:
"Miei cari,
non avevo ancora risposto alle vostre lettere poiché non avevo saputo esattamente di cosa si stava discutendo. Ora, per nostra grande sfortuna, sappiamo tutto. Un testimone che per caso è riuscito a fuggire dall’inferno mi ha visitato... Ho appreso tutto da lui. Il luogo dove ognuno viene messo a morte si chiama Chelmno, non lontano da Dabie; le persone sono tenute nella vicina foresta di Lochow. La gente è uccisa in uno dei due modi seguenti: per fucilazione o con gas velenoso. Questo è ciò che è accaduto alle città di Dabie, Izbica Kujawska, e altre. Recentemente, migliaia di Zingari vi sono stati portati dal cosiddetto campo degli Zingari di Lodz, e lo stesso trattamento è stato loro riservato. Non pensiate che stia scrivendo un pazzo; purtroppo, è la tragica e crudele verità (Buon Dio!). O uomo, getta via i tuoi stracci, spruzza la tua testa con ceneri, o corri nelle strade e danza nella pazzia...sono così consumato dalla sofferenza di Israele, la mia penna non può scrivere di più. Il mio cuore si sta spezzando. Ma forse l’Onnipotente avrà pietà e salverà gli 'ultimi resti del nostro Popolo'.
Aiutaci, O Creatore del Mondo!"

Fonti:
Gilbert, Martin. The Holocaust – The Jewish Tragedy, William Collins Sons & Co. Limited, London, 1986
Lucjan Dobroszycki, ed.: The Chronicle of the Lodz Ghetto 1941-1944, Yale University Press, New Haven & London, 1984

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